Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Il sopravvissuto
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 258, p. 3
Data: 30 ottobre 1955


pag. 3




   Primavera del 1918. Roma, un palazzo nuovo presso il Tevere. Li rivedo in una sala grande, un po' buia perchè il sole di marzo stava calando e i lumi non erano stati ancora accesi. Ero in piedi nel vano di un finestrone che dava sul fiume e vicino a me stavano, due sedute e tre in piedi, cinque persone che, una per una, son tutte morte. Io solo, di quel crocchio d'ingegni, sono sopravvissuto e ogni tanto mi viene dinanzi quel giorno, nell'ora, quell'insieme di volti illuminati dai riflessi surreali del crepuscolo romano.
   Accanto alla finestra l'alta e corpulenta figura del padrone di casa, il conte Giuseppe Primoli uno degli ultimi napoleonidi, il nipote prediletto della principessa Matilde, il quale passava metà dell'anno a Parigi e l'altra metà a Roma e appariva, difatti, come un parigino romanesco, meglio ancora, un romano parisianato.
   Era un bel gentiluomo in buono stato con le guance di vivo color vermiglio rischiarate da due occhi celesti e da una lucida barba candida. Si mostrava sempre gaiamente affabile ma non sempre si capiva bene se era per sincera cordialità di coltura o per generosa degnazione di gran signore all'antica.
   Di fianco a lui, ma seduta, stava Eleonora Duse, vestita quasi poveramente di scuro, ma e aveva sempre le sue belle mani da duchessa, la sua calda e melodiosa voce e i suoi occhi che mandavano ancora, benchè stanchi, lampi degni d'un diamante nero. L'avevo conosciuta pochi anni prima, a Firenze: una mattina era entrata nella Libreria della Voce, mi aveva fissato un momento e poi, a bruciapelo, mi aveva chiesto: chi è l'autore dell'Uomo finito? Da quella mattina s'era diventati quasi amici, come potevano essere amici un'attrice idolatrata da tutto il mondo e un povero scrittore giovane che cominciava appena a uscire dall'oscurità.
   Di fronte alla Duse sedeva Ferdinando Martini che s'avvicinava ormai all'ottantina ma nella faccia rugosa e cascante, burlata dai pensieri e dai piaceri, alla bocca sensuale e atteggiata essa a un sorriso tra l'indulgente e l'ironico, rivelava di aver saputo salvare, a dispetto di Montecitorio e dell'Affrica, tutta l'arguzia, la malizia, la prontezza, la vivezza di spirito e di parola che facevano di lui il re dei conversatori del suo tempo. Anche lui l'avevo conosciuto pochi anni innanzi, a Firenze, nella libreria antiquaria dell'indimenticabile Ferrante Gonnelli e quel vecchio letteralissimo, arioso e brioso, quel patriarca letterario che aveva conosciuto il Giusti e il Rossini, mi aveva ispirato subito una simpatia che mi parve ricambiata.
   Dirimpetto il Primoli, con la persona appoggiata la parete, Giovanni Amendola, veramente bello, maestosamente giovane guardava tutti noi con una mossa dei labbri che pareva, volta a volta, una smorfia di sdegno o un sorriso di ragazzo. Aveva capelli neri, occhi neri, vestito nero e un cipiglio benigno che i suoi vecchi amici ben conoscevano. Il pallore morato del suo volto faceva fantasticare che egli fosse il frutto degli amori tra un profeta indiano e una litrona romana e difatti aveva la passione della metafisica e insieme qualcosa di imperatorio e di cesareo. In quel tempo era capitano d'artiglieria al fronte ma era venuto a Roma in licenza e fui contentissimo di rivederlo dopo tanto tempo.
   Accanto a lui stava, snello come un paggio e attento come un discepolo, uno degli uomini ai quali ho voluto più bene: Armando Spadini. Era sempre più miope e sempre più innamorato della pittura e della vita. Guardava inquieto dietro lo spessore de cristalli ovali, scrutava, frugava, aguzzava lo sguardo come se fosse smanioso di vedere di più, di sapere di più, di capire di più, di scoprire sempre di più. In quei giorni Spadini stava facendo il ritratto al conte Primoli e pareva che lo studiasse con avidità anche quando non aveva il pennello in mano. Il viso bello del mio amico era già inciso dalle ferite della sua dura guerra contro la materia e la miseria, ma io potevo rivedere, in momenti di sosta come quella sera, l'adolescente fiorentino appassionato e spericolato, amoroso e curioso, lo Spadini di vent'anni, con la sua giacchettina blu attillata e la sua zazzera tra fratina e boemesca, che lo faceva somigliare a uno degli eleganti donzelli dipinti dal Ghirlandaio.
   Non tento neppure di raccontare la conversazione che fu animatissima e durò fino all'ora di cena. Chi potrebbe ricordare, dopo tanti anni, i rimbalzi delle battute e ribattute, le gare delle memorie, le scariche dei motti e dei frizzi, le riuscite degli improvvisati epigrammi? Dirò soltanto che il sentimento della Duse, lo spirito del Martini, la volontà di Amendola furono i protagonisti di quella geniale schermaglia.
   Ora, da qualche tempo, mi tornano spesso dinanzi i cinque personaggi di quel lontano crepuscolo di guerra. Tutti e cinque sono spariti, sono partiti, sono discesi uno ad uno nel buio della terra e nella penombra della dimenticanza. Morì, nel 1924, la Duse. nella più terribile e nera città dell'America. Nel 1925 morì, dopo una lunga e angosciosa agonia, il mio Spadini. L'anno di poi moriva, in esilio, per effetto di bestiali percosse, Giovanni Amendola. Nel 1928 si spengeva nella sua villa di Monsummano, dove ero andato a trovarlo fino agli ultimi giorni, Ferdinando Martini. Io solo sono rimasto, io solo sono il sopravvissuto della riunione di quel giorno e non posso persuadermi che proprio a me sia toccato rimanere. Per quale ragione? Per un verso o per un altro tutti quanti valevano più di me. E per giunta due di loro, Amendola e Spadini, erano di me più giovani.
   Sento nell'anima, e non so il perchè, una specie di pudore come di una colpa involontaria, una specie di confuso rimorso come se avessi usurpato un posto non mio, e mi assale a momenti il timore di una misteriosa responsabilità.


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